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Invalidi civili e indennità lavorativa: “mobilitarsi perché Inps ritiri quel messaggio”

Autore: Serena Citrolo
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La notizia del recente “messaggio” dell’INPS, relativo alla incompatibilità tra assegno di invalidità e svolgimento di attività lavorativa derivato da una sentenza della Corte Suprema di Cassazione del 15 luglio 2019, ha gettato molti soci lavoratori delle cooperative sociali in uno stato di frustrazione e paura. Già soltanto la previsione di quest’esito avrebbe reso necessario un processo decisionale più accorto e partecipato. Ma sappiamo bene che queste qualità sono sempre meno presenti nella burocrazia italiana. Oggi si impone quindi una grande mobilitazione per l’immediato ritiro del “messaggio” in oggetto perché il problema che ne è scaturito non è solo legato a qualche decina di euro in più o in meno nelle casse dello stato o nella disponibilità di migliaia di cittadini fragili, ma è una grave violazione del diritto costituzionale.

Veniamo ai fatti. Due importanti leggi del nostro ordinamento, la legge 381/91 e la legge 68/99 hanno cercato di mettere in pratica l’art. 3 della nostra Costituzione: E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Chi lavora nel nostro ambito sa bene che una persona disabile (e pertanto riconosciuta “invalida” dalle commissioni che accertano tale stato) è al contempo abile per lo svolgimento di determinate attività. Le stesse commissioni che accertano le disabilità dovrebbero (anche se non sempre lo fanno) descrivere dettagliatamente attività, mansioni e contesti all’interno dei quali questi cittadini possono lavorare esercitando così non solo un diritto ma anche e piuttosto un dovere di partecipazione al bene economico e sociale della collettività come ha bene espresso la nostra Costituzione nell’articolo sopra citato. La richiesta di lavoro da parte di un cittadino disabile avviene spesso dopo che lo stesso “ha fatto domanda” ed ha ottenuto le certificazioni di rito sulla sua disabilità e le relative prebende dello stato.

Gli assegni di invalidità non consentono certamente il raggiungimento di una autonomia né condannano tanto meno chi ne è beneficiario ad una inattività lavorativa, causa dell’instaurarsi di processi di emarginazione e di stigma. Ecco che la prassi, peraltro molto limitante, è stata finora quella di consentire al disabile una doppia entrata: quella dell’assegno di invalidità e quella di un reddito da lavoro, solitamente un contratto part-time di 20 ore settimanali svolto con le mansioni e nei contesti indicati dalle commissioni e in sede lavorativa dai “medici competenti” dei datori di lavoro.

Questa modalità cercava di conciliare il principio di riconoscimento delle fragilità di una persona con il suo diritto/dovere di lavorare, a prescindere dalla percentuale di invalidità e dalla condizione di “totale inabilità al lavoro”, allocuzione questa che dovremmo abolire dai nostri dizionari culturali e normativi, poiché abbiamo spesso potuto vedere persone disabili in condizione di apparente gravissima disabilità, svolgere lavori anche estremamente significativi. Basti ricordare Rosanna Benzi, affetta da tetraplegia e grave insufficienza respiratoria che la costringevano a vivere in un polmone d’acciaio all’Ospedale San Martino di Genova, che fu scrittrice e per diversi anni Direttore di una rivista.

Il limite di reddito, determinato annualmente dallo Stato per questi casi, portava il disabile a raggiungere un cespite mensile di 700-800 euro che, anche se certamente ancora non sufficienti per una vita dignitosa, aiutavano la persona nella sua autonomia e nel riconoscimento del ruolo svolto nel contesto economico e sociale della sua comunità. Bisogna peraltro aggiungere che tutte queste possibilità concesse dallo Stato e richiamate da diverse leggi e circolari dell’INPS venivano adottate nel riconoscimento del valore terapeutico di ogni esperienza lavorativa, laddove per lavoro si deve intendere, vero e proprio scambio tra prestazione e salario, superando ogni dimensione di intrattenimento ed ergo-terapia propria dei contesti istituzionali e manicomiali. Solo il recupero di una dignità di lavoratore con tutti i doveri e diritti ad essa connessi, può agire terapeuticamente, ridando alla persona dignità ed evitando la cronicizzazione e lo stigma sociale. Pensavamo che questi principi avessero passato il confine dei servizi sociali e sanitari e della cooperazione sociale, permeando altre istituzioni pubbliche (magistratura, istituti previdenziali, organismi politici e amministrativi) che pure dovrebbero orientare il loro agire secondo principi democratici e costituzionali in continua evoluzione con la cultura di un Paese civile.

Ebbene mentre si auspicava, da parte di molti di noi, un aumento dei limiti di reddito nel caso di una persona che percepisce contemporaneamente un assegno di invalidità e un reddito da lavoro, arriva invece, senza preavviso, la doccia fredda del “messaggio INPS”, che anziché migliorare le cose sembra chiudere una pagina di civiltà della storia del nostro Paese. Non si tratta di teorie o di ideologie: questo “messaggio” dell’INPS ha già prodotto i suoi effetti. Andrea e Mario, utenti in carico al Dipartimento di Salute Mentale di Palermo lavorano presso una cooperativa sociale che gestisce due negozi di cibo biologico e oggetti del di commercio equo e solidale. Appresa la notizia, non potendo aumentare le proprie ore di lavoro, sia per motivi personali che per motivi economici dell’impresa, dopo aver consultato il patronato hanno dato il preavviso delle loro dimissioni.

Vanno così in fumo anni di lavoro riabilitativo che avevano portato Andrea e Mario a pesare molto meno sui servizi pubblici e ad aumentare il loro stato di salute e di autonomia. L’annunciata Legge quadro sulla Disabilità proposta dal Presidente Draghi quale atto legislativo che dovrà accompagnare il PNRR dovrà necessariamente prevedere una sezione specificamente dedicata alle questioni legate all’inserimento lavorativo. In questa sezione dovranno essere superate alcuni palesi paradossi come la disparità tra invalidi al 100% (al momento non compresi nel nuovo dispositivo INPS) e invalidi con percentuali minori di invalidità, la compatibilità del percepimento di pensioni di reversibilità con redditi da lavoro riferiti ad assunzioni fino a 25 ore settimanali con finalità riabilitative. La nuova legge dovrà infine regolamentare puntualmente l’inserimento lavorativo dei disabili psichici che, in base agli artt. 9 e 11 della Legge 68, dovrebbero essere chiamati nominativamente nel quadro di convenzioni tra datori di lavoro obbligati e Centri per l’impiego.

Tale dispositivo oggi è lasciato alla discrezionalità dei datori di lavoro e alle sentenze del giudice del lavoro che recentemente ha obbligato una Azienda sanitaria alla stipula della convenzione e all’assunzione di un disabile psichico. Non è necessario aggiungere altro se non l’invito ad una mobilitazione del mondo della cooperazione sociale, del Terzo settore e della società civile tutta per un ritiro del messaggio INPS in questione. Ma tale ritiro non potrà che accompagnarsi ad una accelerazione della riforma delle normative sull’inserimento lavorativo delle persone disabili che registra molti altri vuoti ed ambiguità.

(Gruppo Salute Mentale Legacoopsociali Sicilia)