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Le dispari opportunità: gli effetti economici sulle donne

Autore: Tiziana Di Iorio e Maria Parente (Inapp)
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L’ultimo Rapporto mondiale sui salari di OIL[1]  rileva come dal 2020 al 2022 le donne abbiano maggiormente risentito degli effetti economici della pandemia (anche a causa del maggior carico del lavoro di assistenza e di cura non retribuito, che grava su di loro in misura più significativa) e dell’inflazione che continua ad aumentare a livelli vertiginosi. Le donne hanno subito una perdita occupazionale più elevata, avendo patito una riduzione delle ore lavorate se non proprio la fuoriuscita dal sistema delle opportunità di impiego. Nello stesso tempo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro rileva che, soprattutto nel 2020, a differenza di quel che è accaduto per gli uomini le perdite occupazionali hanno colpito soprattutto lavoratrici con basse retribuzioni. In generale, le donne hanno rispetto agli uomini probabilità maggiori di essere occupate in attività più vulnerabili dell’economia informale (lavoro domestico e a domicilio) e nei lavori a bassa retribuzione nelle filiere globali di approvvigionamento, o come coadiuvanti delle imprese a conduzione familiare.

La lotta alla diseguaglianza di genere in ambito lavorativo richiede un massiccio intervento sulle molteplici dimensioni della discriminazione. Ormai è acclarato non solo che le donne si laureano prima e hanno titoli di studio più alti degli uomini, ma che sono in costante aumento anche le laureate nelle cosiddette discipline STEM, cioè quelle di carattere scientifico, negli anni passati considerate appannaggio dei maschi soprattutto a causa di forti resistenze culturali. È quindi fondamentale intervenire sui fattori che sono alla base del divario retributivo, che per Eurostat in Italia si attesta intorno al 5% a scapito della componente femminile[2] (soprattutto nel privato), riducendo la discriminazione legata alla maternità (che spesso comporta l’interruzione della carriera), eliminando gli stereotipi di genere e aumentando le retribuzioni nei settori che vedono impiegate un’alta percentuale di donne sotto inquadrate.

Per ottenere questi risultati sarebbe utile introdurre politiche mirate alla trasparenza delle retribuzioni, avvalendosi, ad esempio, di piattaforme quali la Coalizione internazionale per la parità salariale, coordinata dall’OIL con UN Women (United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women o) ed OCSE. L’Italia si sta attivando in tal senso per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Agenda ONU 2030, cominciando dalla modifica del d. lgs n. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità), grazie alla legge n. 162/2021[3] e studiando una Strategia nazionale per garantire la parità, usufruendo delle risorse stanziate dal PNRR, in coerenza con le politiche europee (Gender Equality Strategy 2020-2025).

Lo scenario risulta ancora più complesso se consideriamo le donne di origine straniera; per molto tempo protagoniste invisibili del processo migratorio, sono spesso oggetto di varie forme di discriminazione legate all’etnia, al genere, all’appartenenza socioculturale: penalizzazioni che hanno a che fare sia con la cultura di provenienza che con quella d’accoglienza. Le migranti sono spesso costrette ad accettare qualsiasi tipo di lavoro risulti disponibile, anche sottopagato e/o irregolare, mentre molte di loro presentano apprezzabili livelli di istruzione e qualifiche che stentano a trovare riconoscimento nel paese di residenza. Segregate in occupazioni dequalificate, con condizioni di lavoro di cattiva qualità, le immigrate sono per lo più occupate nel settore del lavoro domestico. Se irregolari non hanno né contratto di lavoro né previdenza, devono accettare orari di lavoro molto lunghi in cambio di salari inferiori rispetto ai minimi nazionali, oltre a subire una pesante forma di controllo sulla propria vita da parte di chi le impiega. Eppure nel lavoro di cura le migranti rivestono un ruolo fondamentale: sostengono le autoctone che sono entrate in massa nel sistema produttivo abbandonando, almeno apparentemente, alcune incombenze tradizionalmente affidate alle donne.[4]

In Italia le donne svolgono quotidianamente 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura, mentre il corrispettivo maschile è pari ad un’ora e 48 minuti. La componente femminile si fa carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura; e questo dato pone l’Italia al quinto posto nel continente europeo (dopo Albania, Armenia, Portogallo e Turchia) per squilibrio tra generi. Le donne madri sono ulteriormente penalizzate: infatti quelle che hanno bambini di età inferiore ai 6 anni hanno il tasso di occupazione più basso (53,3%) rispetto ai padri (89,0%) e rispetto alle donne con figli di età maggiore di 6 anni (59,0%). L’attività di riproduzione sociale eseguita storicamente senza alcuna remunerazione[5], pur attraversando una grave crisi nell’odierna società capitalistica, rimane comunque demandata alla donna, autoctona o straniera che sia e ciò rappresenta una delle più comuni forme di discriminazione e di “dispari opportunità”.

Nonostante i progressi compiuti, dunque, gli svantaggi che nel mercato del lavoro (e non solo) continuano a subire le donne, soprattutto quelle appartenenti alle fasce più deboli e meno qualificate, rappresentano tuttora un segnale molto forte di diseguaglianza sociale, che stride con gli Obiettivi di eguaglianza e parità dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

[1] OIL (2022), Global Wage Report (2022-2023). The impact of COVID – 19 and inflation on wages and purchasing power, International Labour Office, Geneve

[2] Il divario retributivo di genere è assai più elevato se si tiene in considerazione il diverso livello di partecipazione di donne e uomini, poco qualificati, al mercato di lavoro.

[3] La novità introdotta dalla l. n. 162/2021 riguarda l’estensione della tutela antidiscriminatoria nella fase di preassunzione e di selezione del personale, in quanto sono ancora troppi i casi di condotte o atti che realizzano in questa fase un effetto pregiudizievole e di svantaggio (diretto o indiretto) nei confronti dei lavoratori portatori del cd. fattore di rischio.

[4] Sulla questione del lavoro domestico e sulle catene della cura vi è un’ampia letteratura sia italiana che internazionale. Per approfondimenti cfr.  Ehrenreich B., Hochschild A.R., Donne Globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli 2004; Scialdone A., Passaggi in ombra. Lavoratrici straniere della sfera domestica e catene globali della cura, in Genesis XIII/1, 2014; Marchetti S., Cherubini D. & Garofalo Geymonat G., Global Domestic Workers. Intersectional inequalities and struggles for rights, Bristol University Press 2021.

[5] Si veda Fraser N., La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, Mimesis Edizioni, 2017.