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I media in campo contro la violenza di genere

Autore: Gaia Peruzzi
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Nonostante le questioni di genere e la violenza contro le donne abbiano acquisito una maggiore visibilità nella sfera pubblica, il numero dei femminicidi in Italia rimane drammaticamente inflessibile e molti indicatori concorrono a confermare che stereotipi e discriminazioni di genere continuano a condizionare la vita delle persone e a frenare lo sviluppo della società.

In occasione della presentazione di un prodotto mediale dedicato proprio a questi temi, è opportuno dunque soffermarci un attimo a riflettere sul ruolo che la comunicazione e i media possono avere nel contrastare il sessismo.

In maniera necessariamente rapida e senza alcuna pretesa di esaustività, proveremo di seguito a contrastare alcune false rappresentazioni ricorrenti nell’opinione pubblica. Si tratta di questioni che a primo impatto possono apparire banali. Invece, pare a chi scrive che lavorare sulla piena comprensione del ruolo dei media nella lotta contro le violenze di genere sia una delle poche strategie che può aspirare a produrre, nel lungo periodo, un cambiamento vero.

Perché bisogna investire di più in comunicazione (e non credere che i soli soldi spesi bene siano quelli per l’intervento sociale)

Un pregiudizio tanto errato quanto diffuso è quello per cui i media sarebbero accessori nelle nostre vite e la comunicazione un fenomeno di superficie, che riflette una realtà sottostante “concreta”. In questa visione, un’attività di comunicazione sarà sempre qualcosa di superfluo o aggiuntivo rispetto a un progetto di intervento sociale.

Questa prospettiva è fuorviante. Viviamo in società profondamente mediatizzate. Noi dipendiamo dai media, i media ci sono indispensabili per vivere.  Siamo immersi nei mondi creati dai media, attraverso i media intessiamo la maggior parte delle nostre relazioni e svolgiamo moltissime funzioni quotidiane. Come ha scritto Roger Silverstone, brillante studioso di comunicazione, i media sono oggi la piattaforma dove noi rappresentiamo le questioni che ci interessano, discutiamo, giudichiamo azioni e persone, costruiamo morale pubblica.

Dunque, se dobbiamo cambiare le mentalità sulle questioni di genere, dobbiamo farlo necessariamente stando nei media, lavorando con i media. Dobbiamo investire per costruire nuovi prodotti, nuovi linguaggi, capaci di far immaginare nuove identità e nuove relazioni, e di parlare a generazioni e culture diverse.

Perché bisogna parlare di cultura (e non di natura)

Di fronte alla violenza su una donna, si sente ancora spesso dire che “si sa, è del maschio essere geloso, passionale, violento… è la natura umana”. Questo fondo di rassegnazione è pericolosissimo, perché è uno scoglio invisibile su cui si incagliano continuamente i processi di responsabilizzazione degli uomini. Lascio all’invettiva di Françoise Héritier, antropologa francese che ha dedicato la vita allo studio della violenza, il compito di smontare questa falsa rappresentazione: “Ci parlano di una natura, di una natura che sarebbe più violenta negli uomini, che sarebbe fondamentalmente dominatrice, e ci parlano pure di accessi di bestialità. In tutti i casi, è falso! Non è una natura, è una cultura! È proprio perché sono capaci di pensare che gli esseri umani hanno costruito un sistema di valenze differenziali dei sessi […] Non è dunque una questione di bestialità, di natura. È invece proprio perché è una questione di pensiero, di cultura, di costruzione mentale, che noi possiamo pensare che la lotta può cambiare questo stato di fatto.”

Perché le questioni linguistiche sono importanti (e non un capriccio intellettuale)

“Uomo” e “donna” non sono sinonimi di “maschio” e “femmina”. Capire perché significa distinguere un’identità fatta di caratteristiche fisiche, desideri e sensazioni personali, ruoli e relazioni (genere) da un’appartenenza legata esclusivamente a una caratteristica fisica (sesso); significa vedere differenze e processi che prima non si scorgevano, e aprire al riconoscimento di esistenze diverse. Analogamente, declinare al femminile sostantivi e professioni tradizionalmente usati solo al maschile è riconoscere che certe posizioni non sono più prerogativa esclusiva degli uomini. Il cambiamento della lingua è il cambiamento della società: i tentativi di arrestarlo in nome della purezza della lingua suonano poco convincenti.

Per le medesime ragioni, oggi bisognerebbe abituarsi a parlare di violenze di genere, al plurale: perché se il nemico del femminismo è il sessismo, e se le donne ne sono senza dubbio le prime vittime, non bisogna dimenticare che la violenza sessista si agita anche contro omosessuali e persone queer. Soprattutto, se la lotta contro la violenza di genere è una battaglia contro una discriminazione ingiusta, e l’obiettivo è una società migliore, condurla escludendo alcune categorie in nome di una priorità storica o numerica non è un motivo all’altezza della causa.

Quale ruolo per  la coooperazione sociale

Come si è detto, quella contro le violenze di genere è una battaglia culturale, che richiede l’attivazione di armi e strategie di lungo periodo, in primis la formazione e la comunicazione. Tutti gli attori che abitano la sfera pubblica sono convocati. Il mondo della cooperazione, come tutto il Terzo Settore, occupandosi di diritti, giustizia e solidarietà per definizione, deve costruirsi un ruolo da protagonista.

*docente di Media Genere Diversità, Sapienza Università di Roma